Dic 15, 2008
L’ (auto)distruzione, è la creazione
La sera del 6/12 non si potrà dimenticare tanto facilmente.
E questo non
perchè l’assassinio di Alexis è un fatto fuori dal comune, incredibile.
La violenza dello stato può ben provare ad organizzarsi in versioni
dominatrici di volta in volta più produttive, ma alla fine essa dovrà
costantemente tornare sui propri passi, verso una forma di violenza
dispendiosa, conservando nella sua struttura un (extra) stato che non è
in grado d’imporre l’ordine secondo i nuovi dettami della disciplina
modernizzata, fondata sulla sorveglianza e sul controllo dei corpi. In
alcuni casi esso opta per l’eliminazione dei corpi che disobbediscono,
pagando poi il prezzo politico che consegue da questa scelta.
Ogni volta che uno sbirro grida: “Ehi, tu!”, il soggetto al quale
s’indirizza quest’ordine e che gira il proprio corpo verso la direzione
del potere, verso il richiamo dello sbirro, è per definizione
innocente; se esso però risponde alla voce che lo chiama esso produce
potere
Il soggetto che non è stato reso abbastanza docile e
disobbedisce, costituisce un caso dove il potere perde il suo
significato e diviene qualche cosa d’altro, una violazione che si deve
regolare (uno sgarro), anche se questo momento di disobbedienza si
svolge a bassa voce, anche se questa persona non ha lanciato una
bottiglia in fiamme verso la macchina degli sbirri ma una bottiglia di
plastica.
Quando l’orgoglio maschile dello sbirro-fascista viene offeso, esso si
può sentire anche in diritto di uccidere per proteggere – questa la sua
pretesa e la sua giustificazione – i suoi figli e la propria famiglia. In
altre parole, l’ordine morale e la dominazione maschile (la forma più
caratteristica di violenza simbolica e materiale instaurata dal regime
sessuale) hanno reso l’assassinio di Alexis possibile, ne sono stati la
molla, essi hanno prodotto la loro ‘verità’ e voilà, esso ha avuto luogo.
Con l’assassinio, arrivati al limite tragico d’una morte che dà un senso
a vite dalla flebile esistenza, ha avuto anche luogo la rivolta, questo
incredibile, imprevisto rovesciamento dei ritmi sociali, questa rottura
del tempo e dello spazio abituali, che destruttura le strutture
esistenti, che rende meno definito il confine tra ciò che esiste già e
quello che non c’è ancora.
Un momento di gioia e di gioco, di paura, di passione e di rabbia, di
confusione e di coscienza, dinamico e carico di promesse. Un momento
che, tuttavia, dovrà scegliere se aver timore di se stesso, e quindi
tenersi aggrappato a quegli automatismi che lo hanno creato, oppure
ripudiare senza posa sé stesso per arrivare a trasformarsi
continuamente, per non correre il rischio di approdare, alla fine, nel
determinismo delle rivolte soffocate nella normalità, delle rivolte che
si sono difese, e che alla fine sono diventate esse stesse un altro tipo
di potere.
Ma la rivolta come è potuta diventare possibile? Quale diritto gli
insorti si sono rivendicati, proprio in questo momento, in questo punto,
per questo corpo assassinato? Come è stato socializzato questo simbolo?
Alexis era ‘il nostro Alexis’, non era qualcun’altro, non era uno
straniero, non era un rifugiato. Degli studenti di 15 anni si saranno
identificati con lui, delle madri avranno avuto paura, piangendo questo
corpo, di piangere il proprio figlio, le voci di regime lo vorrebbero
santificare come un eroe nazionale.
Il corpo del ragazzo aveva un
significato, la sua vita doveva ancora essere vissuta, l’interruzione di
questa vita è stato un attacco contro la sfera sociale ed è per questo
che il lutto per Alexis è possibile, anzi imperativo.
Quel proiettile ha perforato la comunità nella quale le rivoltose e i
rivoltosi hanno smesso di identificarsi, come non ci si identificava più
Alexis, ma molti tra noi hanno il privilegio di farne parte dato che gli
altri ci riconoscono come tali.
La storia di Alexis sarà riscritta
partendo dalla sua fine: era un bravo ragazzo, hanno detto. La rivolta,
che non si poteva prevedere, è stata resa possibile dalle spaccature che si
sono create all’interno di una società che decide quali corpi hanno
un’importanza in seno alla rete sociale di relazioni di potere.
La
rivolta, questo inno alla non-normalità, è un prodotto della normalità,
essa è la vendetta per i ‘nostri propri’ corpi che sono stati soppressi,
per il nostro proprio corpo sociale. Questa pallottola non ha colpito
solo Alexis, ma la società intera. È stata una ferita per ogni borghese
democratico che si augura che lo Stato e le sue istituzioni perseguano
la sicurezza dei cittadini, la propria sicurezza. È stata una
dichiarazione di guerra da parte dello Stato nei confronti della
società. Il contratto è stato rotto, non ci sono più le basi per il
consenso.
L’atto politico e morale della reistenza è divenuto possibile,
comprensibile, giusto, visibile dal momento che essa è competenza di
criteri e di termini della classe simbolica dominante che trattiene il
tessuto sociale.
Questo punto di partenza non annulla il fatto che la rivolta sia nel suo
pieno diritto d’essere. D’altronde il linguaggio del il potere, che
attribuisce un nome, una forma e un senso a tutte le cose, stabilisce e
delimita anche i campi dei significati da dove si sono attinte le
categorie sociali al fine di regolamentare le relazioni sociali
gerarchizzate. Questo potere, scegliendo bene le parole, ha ostracizzato
alcune categorie di quella comunità, le ‘persone travisate’.
Esso ha
cercato così di relegarli in un margine per mostrare fin dove fosse il
limite concesso della disobbedienza. Resistete, sembrava voler dire, ma
non in questo modo, perchè così è pericoloso, noi vi abbiamo avvisati.
Quello che la legittimazione sociale che si è riscontrata all’inizio di
questo percorso ci dice chiaramente, a nostro parere, è che sia che ci
si trovi dentro il potere, sia che si tratti di creazioni proprie, si è
comunque dentro di lui e contro di lui, si è quello che si fa per
cambiare l’esistente, perchè questa congiuntura storica può essere
plasmata dai contenuti che noi scegliamo di metterci e non dai
significati che avrebbero potuto investirla e dei quali essa saprebbe
facilmente liberarsi in una notte.
Ed essa non può attraversare intatta il limite tra la sottomissione e
l’azione autonoma, perchè se la rivolta deve mobilitare la sua
mascolinità per lottare contro gli sbirri, nello stesso tempo la deve
contestare. Perchè è esattamente il potere con il quale lotta contro gli
sbirri. E questa ambivalenza di sentimenti al cuore della nostra
soggettività, quasta dicotomia o ci farà vacillare, compromettendoci,
oppure saremo noi a farla vacillare.
Nella scelta sta la nostra statura
morale che si svolge al margine del rumore della rivolta, con noi e
attorno a noi, durante le serate tranquille in cui ci si domanda: “cosa
sta accadendo adesso?”, “Cos’è che non ha funzionato al punto che adesso
si sente solo silenzio?”
resistenza possono diventare delle strategie di potere, il caos può
ristrutturare le relazioni di potere, se mentre si lotta contro il mondo
non si lotta anche con la stessa convinzione contro le nostre
personalità, che a questo mondo non sono estranee perchè in esso si sono
formate, in seno alla rete di legami morali e politici dove ha luogo il
nostro essere complici, se si costruisce un macho che diventa folle e
ingarbugliato dalle ‘emozioni’, se ci si fossilizza in posizioni che
rischiano di diventare una nuova forma di potere
Ragazze in rivolta