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IL FANTASMA DELLA LIBERTA’ ARRIVA SEMPRE CON UN COLTELLO TRA I DENTI

Il fantasma della liberta’ arriva sempre con un coltello tra i denti.

Sparare alla carne e’ il punto piu’ alto dell’oppressione sociale. Tutte le pietre disselciate dal pavimento e lanciate sugli scudi della polizia alle vetrine dei templi delle comodita’; tutte le bottiglie incendiarie traccianti orbite di fuoco nei cieli notturni; tutte le barricate erette nelle strade della citta’ separando le nostre zone dalle loro; tutti i depositi di spazzatura della societa’ consumista cui le fiamme delle rivolte hanno finalmente dato un senso; tutti i pugni levati al cielo; queste sono le armi che danno carne e potere reale, non solo alla resistenza, ma anche alla liberta’.

E’ anche solo per questo sentimento di liberta’ che vale la pena scommettere su questi momenti: il sentimento delle mattine dimenticate della nostra infanzia, quando tutto poteva succedere perche’ erano nostre, come esseri umani creativi, non i futuri uomini macchina produttivi della subordinazione, il lavoratore alienato, il proprietario privato, il padre di famiglia.

E’ il sentimento che ti fa scontrare con i nemici della liberta’ – che non te li fa piu’ temere.
E’ per questo che tutti coloro che vogliono occuparsi dei loro affari, come se niente stia succedendo, come se niente fosse mai successo, hanno serie ragioni per essere spaventati.

Il fantasma della liberta’ arriva sempre con un coltello tra i denti, con violenza per rompere ogni catena che riduca la vita ad una miserabile ripetizione, utile solo alla riproduzione delle relazioni sociali del dominio.
Dal sabato 6 dicembre nessuna citta’ in questo paese funziona normalmente, non c’e’ modo di andare a fare la spesa, non ci sono strade libere per andare ai nostri posti di lavoro, non ci sono nottizie su prossimi ristabilimenti governativi, non continua quel noncurante zapping tra gli stili di vita degli shows televisivi, non ci sono movide notturne intorno a piazza Syntagma, eccetera.

Queste notti, questi giorni, appartengono ad Alexis!
Come surrealisti, siamo stati nelle strade dal primo momento, insieme a centinaia di altri ribelli e altra gente che solidarizzava, perche’ il surrealismo e’ nato dal respiro della strada e non ha intenzione di abbandonarlo.
Dopo la resistenza di massa agli assassini di Stato, il vento della strada e’ piu’ caldo, piu’ ospitale, piu’ creativo.

Proporre una direzione a questo movimento non ci appartiene. Invece facciamo nostra ogni responsabilita’ della lotta comune, perche’ e’ una lotta per la liberta’.
Senza essere partigiani della violenza cieca o della violenza per la violenza, senza essere obbligati ad accettare ogni espressione di questo fenomeno di massa, lo consideriamo totalmente corretto.

Non lasciamo che questo alito infiammabile di poesia si calmi, tantomeno che muoia!

Convertiamolo invece in utopia certa: la trasformazione del mondo e della vita!

Nessuna pace per la polizia e per i suoi dirigenti!

Chi non riesce a comprendere questa rabbia puo’ semplicemente tacere!

 

Gruppo surrealista di Atene – 
fine dicembre 2008

Konstantina Kuneva

Atene – Il 23 Dicembre 2008, Konstantina
Kuneva, immigrata dalla Bulgaria che lavora come spazzina nella
metropolitana di Atene, ha subito un attentato contro la sua vita
mentre stava rincasando dopo una giornata di lavoro. Konstantina era
nota per la sua attivita sindacale e per questo motivo si era trovata
nel mirino della ditta appaltatrice delle pulizie nella metropolitana
di Atene che era il suo diretto datore di lavoro. Come prima risposta
all’attentato contro la vita di Konstantina, un gruppo di compagni-e ha
occupato la sede di ISAP ( La ferrovia elettrica di Atene-Pireo) il 27
dicembre 2008. Ciò che segue è il volantino distribuito. L’occupazione
è terminata ieri, domenica 28 dicembre 2008.

QUANDO ATTACCANO UN@ DI NOI,

CI ATTACCANO TUTTI

Oggi 27 Dicembre abbiamo occupato la sede centrale di ISAP (Ferrovia
Elettrica di Atene-Pireo) come prima risposta all’attentato contro la
sua vita che ha subito Konstantina Kuneva il 23 dicembre 2008 mentre
stava rincasando dal suo lavoro.

Konstantina è ricoverata in gravi condizioni nel reparto di terapia
intensiva dell’ospedale “Evangelismos” riportando gravi lesioni agli
occhi ed all’apparato respiratorio.

Chi è Konstantina? Per quale motivo è stata attaccata?

Konstantina è una delle centinaia di lavoratrici immigrate che
lavora da anni come lavoratrice interinale nel settore delle pulizie. È
segretaria generale dell’Unione Panattica degli spazzini-e e dei
lavoratori domestici, sindacalista militante, nota per la sua
combattività. La settimana scorsa si era scontrata con il padronato di
“ICOMET”, rivendicando la tredicesima per lei e per le sue colleghe e
denunciando le irregolarità riguardo alla loro busta paga. Tutto ciò è
venuto dopo il licenziamento vendicativo di sua madre dalla medesima
ditta, il suo trasferimento in un altro posto di lavoro, mentre pende
la sua denuncia all’Ispettorato del Lavoro che sarà esaminata il 5
gennaio 2009. Tutto ciò costituisce la norma e non l’eccezione nel
settore delle pulizie e del lavoro interinale.

I contratti fuori norma, le ore di lavoro e gli straordinari non
pagati, lo scarto tra i soldi per i quali firmano i lavoratori e quelli
che effettivamente ricevono, l’assunzione di immigrati e di immigrate
che sono più ricattabili, il non versamento dei contributi dell’INPS
costituiscono le pratiche abituali degli appaltatori nel settore delle
pulizie. Naturalmente tutto ciò avviene grazie ai dirigenti degli enti
pubblici che danno copertura alle irregolarità e promuovono la
precarietà del lavoro.

Specialmente per quanto riguarda “ICOMET”, una ditta che opera nel
settore delle pulizie e del lavoro interinale che opera su scala
nazionale, proprietà di Nikitas Iconomakis, dirigente del partito
socialista (Pasok), che impiega “ufficialmente” 800 lavoratori (gli
stessi lavoratori parlano di almeno 1500, mentre gli ultimi 3 anni sono
“passati” dalla ditta più di 3000 lavoratori) gli abusi da parte del
padronato sono all’ordine giorno. I lavoratori sono costretti a firmare
contratti “in bianco” di cui non ricevono mai la copia. Lavorano 6 ore
e vengono pagate per 4,5 ore (salario e contributi) in modo da non
raggiungere mai le 30 ore settimanali (in questo modo il loro lavoro
non è considerato lavoro usurante e non traggono i benefici della
legge). Vengono terrorizzate, vengono trasferite e, quando vogliono
licenziare una lavoratrice, la minacciano per costringerla a dare le
dimissioni (una lavoratrice è stata trattenuta per quattro ore nei
locali della ditta affinché firmasse le sue dimissioni). Il padronato
sta cercando di creare un sindacato giallo per sottomettere i
lavoratori mentre tramite licenziamenti cerca di bloccare i canali di
comunicazione tra i lavoratori e la loro azione collettiva.

Cosa c’entra “ICOMET” con ISAP?

All’”ICOMET” è stato aggiudicato l’appalto per le pulizie dell’ISAP
e di altri enti pubblici, perché ha potuto fare l’offerta più bassa con
i più alti tassi di sfruttamento e deprezzamento della forza-lavoro.
Questo regime di sfruttamento è stato organizzato per soddisfare le
esigenze di vari enti pubblici, tra cui anche l’ISAP. L’ISAP è complice
di questo regime di sfruttamento selvaggio, nonostante le numerose
denuncie fatte dal sindacato dei lavoratori.

L’attentato contro la vita della nostra collega era vendicativo e intimidatorio.

Il bersaglio non era casuale: donna, immigrata, militante sindacale,
madre di un minorenne, agli occhi dei padroni costituiva un bersaglio
facile.

Il modo non era casuale: il suo scopo era di lasciare il suo segno, di intimidire e di terrorizzare.

Il tempo non era casuale: mentre i mass-media, i partiti, la chiesa,
i padroni e i dirigenti sindacali cercano di ingiuriare la rivolta
sociale; mentre l’assassinio a sangue freddo di Alexis Grigoropoulos
viene presentato come “morte accidentale” all’attentato contro
Konstantina viene dedicato pochissimo spazio.

L’attentato contro la vita di Konstantina è stato preparato dal padronato con diligenza.

Konstantina è una di noi. La lotta per la DIGNITÀ e la SOLIDARIETÀ è la NOSTRA LOTTA.!

L’attentato contro Konstantina ci ha segnati tutti. Ha segnato la
nostra memoria e il nostro cuore che è pieno di dolore e di rabbia.

GLI ASSASSINI PAGHERANNO TUTTO

NON CI FAREMO INTIMIDIRE DAL PADRONATO

ASSEMBLEA DI SOLIDARIETÀ

A KONSTANTINA KUNEVA

QUANDO ATTACCANO UNO DI NOI, CI ATTACCANO TUTTI


 

 

Oggi 27 Dicembre abbiamo occupato la sede
centrale di ISAP (Ferrovia Elettrica di Atene-Pireo) come prima
risposta all’attentato contro la sua vita che ha subito Constantina
Cunova il 23 dicembre 2008 mentre stava rincasando dal suo lavoro.

            Constantina è ricoverata in
gravi condizioni nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale
“Evangelismos” riportando gravi ferite negli occhi e nel sistema
respiratorio.

 

            Chi è Constantina? Per quale motivo è stata attaccata?

Constantina è una delle centinaia di
lavoratrici immigrate che lavora da anni come lavoratrice interinale
nel settore delle pulizie. È segretaria generale dell’Unione Panattica
degli spazzini-e e dei lavoratori domestici, sindacalista militante,
nota per la sua combattività. La settimana scorsa si era scontrata con
il padronato di “ICOMET”, rivendicando la tredicesima per lei e per le
sue colleghe e denunciando le irregolarità riguardo alla loro busta
paga. Tutto ciò è venuto dopo il licenziamento vendicativo di sua madre
dalla medesima ditta, il suo trasferimento in un altro posto di lavoro,
mentre pende la sua denuncia all’Ispettorato del Lavoro che sarà
esaminata il 5 gennaio 2009. Tutto ciò costituisce la norma e non
l’eccezione nel settore delle pulizie e del lavoro interinale.

            I contratti fuori norma, le
ore di lavoro e gli straordinari non pagati, lo scarto tra i soldi per
i quali firmano i lavoratori e quelli che effettivamente ricevono,
l’assunzione di immigrati e di immigrate che sono più ricattabili, il
non versamento dei contributi dell’INPS costituiscono le pratiche
abituali degli appaltatori nel settore delle pulizie. Naturalmente
tutto ciò avviene grazie ai dirigenti degli enti pubblici che danno
copertura alle irregolarità e promuovono la precarietà del lavoro.

            Specialmente per quanto
riguarda “ICOMET”, una ditta che opera nel settore delle pulizie e del
lavoro interinale che opera su scala nazionale, proprietà di Nikitas
Iconomakis, dirigente del partito socialista (Pasok), che impiega
“ufficialmente” 800 lavoratori (gli stessi lavoratori parlano di almeno
1500, mentre gli ultimi 3 anni sono “passati” dalla ditta più di 3000
lavoratori) gli abusi dal parte del padronato sono nell’ordine giorno.
I lavoratori sono costretti di firmare contratti “in bianco” di cui non
ricevono mai la copia. Lavorano 6 ore e vengono pagate per 4,5 ore
(salario e contributi) in modo di non raggiungere mai le 30 ore
settimanali (in questo modo il loro lavoro non è considerato lavoro
usurante e non traggono i benefici della legge). Vengono terrorizzate,
vengono trasferite, e, quando vogliono licenziare una lavoratrice la
minacciano per dare le dimissioni (una lavoratrice è stata trattenuta
per quattro ore nei locali della ditta finché firmasse le sue
dimissioni). Il padronato sta cercando di creare un sindacato giallo
per sottomettere i lavoratori mentre tramite licenziamenti cerca di
bloccare i canali di comunicazione tra i lavoratori e la loro azione
collettiva.

           

            Cosa c’entra “ICOMET” con ISAP?

All’”ICOMET” è stato aggiudicato l’appalto per le pulizie dell’ISAP e
di altri enti pubblici, perché ha potuto fare l’offerta più bassa con i
più alti tassi di sfruttamento e deprezzamento della forza-lavoro.
Questo regime di sfruttamento è stato organizzato per soddisfare le
esigenze di vari enti pubblici, tra cui anche l’ISAP. L’ISAP è complice
di questo regime di sfruttamento selvaggio, nonostante le numerose
denuncie fatte dal sindacato dei lavoratori.

            L’ attentato contro la vita della nostra collega era vendicativo e intimidatorio.   

            Il bersaglio non era casuale: Donna, immigrata, militante sindacale, madre di un minorenne, negli occhi dei padroni costituiva un bersaglio facile.

            Il modo non era casuale: Il suo scopo era di lasciare il suo segno, di intimidire e di terrorizzare.

            Il tempo non era casuale:
Mentre i mass-media, i partiti, la chiesa, i padroni e i dirigenti
sindacali cercano di ingiuriare la rivolta sociale; mentre l’assassinio
a sangue freddo di Alexis Grigoropoulos  viene presentato come “morte
accidentale”, all’attentato contro Constantina viene dedicato
pochissimo spazio.

L’attentato contro la vita di Constantina è stato preparato dal padronato con diligenza.

Constantina è una di noi. La lotta per la DIGNITÀ e la SOLIDARIETÀ  è la NOSTRA LOTTA.

L’attentato contro Constantina ci ha segnati tutti. Ha segnato la nostra memoria e il nostro cuore che è pieno di dolore e di rabbia.

   

 

GLI ASSASSINI PAGHERANNO TUTTO

NON CI FAREMO INTIMIDIRE DAL PADRONATO

 

ASSEMBLEA DI SOLIDARIETÀ A KONSTANTINA KUNEVA

annuncio del Politecnico occupato di Atene

Annuncio del Politecnico occupato di Atene (24.12.2008)
L’occupazione del Politecnico è terminata a mezzanotte del 24 Dicembre– La lotta continua

Subito dopo l’assassinio di Alexandros Grigoropoulos
da parte della guardia speciale di polizia Ep. Kokoneas e i primi
scontri per le strade di Exarchia, il Politecnico è stato occupato e
trasformato nel punto focale per l’espressione della rabbia sociale.
Spazio storicamente e simbolicamente legato alla viva memoria dei
ribelli e di una grossa parte della società alla lotta contro
l’Autorità – dal periodo della dittatura fino alla democrazia
totalitaria contemporanea -, il Politecnico è diventato un luogo dove
centinaia di persone spontaneamente si riuniscono: compagni, giovani e
lavoratori, disoccupati, adolescenti, immigrati e studenti…

Le lotte contro le forze di repressione con le ardenti barricate
nelle strade adiacenti sono diventate la scintilla di una rivolta che
si è propagata in tutta la città con manifestazioni spontanee,
l’occupazione dell’Università di Economia e della Scuola di Legge, con
attacchi contro bersagli statali e capitalistici nel centro e nella
periferia di Atene e in molte città del Paese. I giorni seguenti, con
le manifestazioni di migliaia di persone confluite in sommosse e
attacchi contro le banche, ministeri e grandi magazzini, ragazzini che
assediano e assaltano le stazioni di polizia, la sommossa alla prigione
di Koridallos e al Parlamento, la rivolta è diventata generale; questa
rivolta innescata dall’assassinio di A. Grigoropoulos e esplosa nella
reazione immediata di centinaia di compagni all’estesa violenza di
Stato, ispirando azioni di rabbia e solidarietà oltre i confini, in
tutto il mondo. Questa rivolta che fremeva sotto le condizioni di un
attacco generalizzato dello Stato e dei padroni contro la società,
sempre più forte nella realtà di una quotidiana morte della libertà e
della dignità, riserva per le persone oppresse al crescere
dell’esclusione, della povertà, dello sfruttamento,della repressione e
del controllo. Questa rivolta che assiduamente si “preparava”, anche
nei tempi oscuri del terrorismo fascista e di Stato, in ogni piccolo o
grande gesto di resistenza contro la sottomissione o la resa, lasciando
aperta la strada affinché le persone si potessero incontrare per
strada, così, com’è accaduto in questi giorni.
In questa realtà sociale esplosiva, il Politecnico occupato è diventato
un punto di riferimento per il confronto diretto con lo Stato, in tutte
le forme e con tutti i mezzi possibili, attraverso eventi
insurrezionali continuati che hanno dato alle fiamme l’ordine e la
sicurezza dei padroni, facendo a pezzi la falsa immagine di un consenso
sociale alle loro intenzioni omicide.
E’ diventato un luogo dove soggetti ribelli sociali e politici si sono
incontrati e influenzati vicendevolmente, attraverso le assemblee
generali e la loro presenza quotidiana all’occupazione.
Ha funzionato come base per una contro-informazione, attraverso
comunicati e manifesti, il blog e la stazione radio, e con il sistema
PA per spedire messaggi e notizie sulle novità della rivolta in atto.
Ed ha anche dato vita ad iniziative politiche di resistenza, come
l’appello dall’assemblea del Politecnico occupato per una giornata globale di azioni il 20 Dicembre
– sfociata in una mobilitazione coordinata in più di 50 città in Paesi
differenti, e alla quale gli occupanti del Politecnico hanno
partecipato organizzando una dimostrazione nella piazza dove A.
Grigoropoulos è stato assassinato -, come il concerto tenutosi il 22
Dicembre in solidarietà e supporto finanziario agli ostaggi della
rivolta, e l’appello per la partecipazione alla manifestazione in
solidarietà degli arrestati che è stata organizzata dai compagni, parte
dell’assemblea del GSEE (Confederazione Generale dei Lavoratori)
occupato.

Come punto fermo, per 18 giorni, dell’estasa rivolta, il Politecnico
occupato ha costituito un appello continuo all’insubordinazione delle
persone che resistono in tutto il mondo, ed un segno permanente di
solidarietà con gli ostaggi presi dallo Stato durante la rivolta. E’
diventato il territorio che abbiamo usato per diffondere il messaggio
di solidarietà fra oppressi, di auto-organizzazione e di contrattacco
sociale e di classe contro l’Autorità mondiale, i suoi meccanismi e i
suoi simboli. Questi elementi e valori della lotta hanno creato il
terreno per far sì che gli oppressi si incontrassero nella ribellione,
armassero le loro coscienze e, forse per la prima volta, diventasse
così impropriamente estesa attraverso così tante persone di diversa età
e nazionalità; Persone con le quali anarchici e anti-autoritari hanno
condiviso la lotta, la stessa rabbia contro chi saccheggia le nostre
vite e, molto spesso, la stessa visione per un mondo di libertà,
uguaglianza e solidarietà.
Per questa ragione, la repressione non si è solamente espressa nella
forma della brutalità poliziesca, negli arresti e nell’imprigionamento
dei manifestanti, ma anche con un attacco ideologico intenso lanciato
da tutti i fronti del sistema politico che ha visto tremare le sue
fondamenta quando la repressione, sulla quale si radica, non solo non
era capace di contenere i moti della rivolta, ma, al contrario, ne è
stata la sua causa prima.
Questo attacco ideologico ha mirato in maniera selettiva agli
anarchici, come parte politica e non negoziabile della rivolta,
precisamente a causa dell’impatto che le loro parole e azioni avevano,
e per il pericolo che si realizza per lo Stato quando essi comunicano e
si coordinano con migliaia di oppressi. In questo contesto, c’è stato
uno sforzo isterico nel dividere i rivoltosi in “bravi ragazzi” da una
parte, “cattivi incappucciati anarchici – ‘koukouloforoi’” o “immigrati
saccheggiatori” dall’altra, così come il buon vecchio mito dei
provocatori, al fine di manipolare la rabbia per l’assassinio,di
esaurire l’esplosione sociale, criminalizzare, isolare e frantumare i
punti fermi di riferimento della rivolta [Questa comunque è la stessa
retorica di repressione che ha condotto all’omicidio di A.
Grigoropoulos, poiché responsabile nel designare uno specifico ambiente
politico e sociale, spazi e persone come “nemici all’interno” sui quali
la violenza statale “legittimamente” deve essere imposta]. In questo
sforzo realizzato dallo Stato, il bersaglio continuo puntato sul
Politecnico era applicato su base quotidiana, con dichiarazioni da
parte dei politicanti e campagne diffamanti perpetuate dai mass media.
Dopo le ore di scontri a Exarchia e nei dintorni del Politecnico
durante la notte del 20 Dicembre, lo Stato, sotto le spoglie del
pubblico querelante, ha minacciato di procedere con un’incursione di
polizia, dopo aver sospeso l’accademico asilo politico nell’università,
nonostante i disaccordi delle autorità universitarie, ai fini di
sopprimere la rivolta, attaccando così uno dei primi posti dai quali ha
preso avvio.
Le loro intenzioni sono state sconfitte dal rifiuto degli occupanti di
obbedire a qualsiasi ultimatum, dalla determinazione nel difendere
questo territorio politico e sociale come parte della rivolta, e
dall’appello aperto a partecipare e supportare l’occupazione con la
presenza e procedere all’incontro organizzato in solidarietà con i
prigionieri il 22 dicembre, che ha raccolto centinaia di persone al
Politecnico.
La minaccia dello sfratto immediato è ritornata più forte il giorno
successivo, il 23 Dicembre, quando, durante l’assemblea si discuteva
sul termine dell’occupazione, eravamo informati da personaggi politici
e accademici che il Ministro dell’Interno e la polizia domandavano la
nostra uscita immediata dal campus, altrimenti i poliziotti avrebbero
invaso. La risposta dagli occupanti è stata che il Politecnico non
apparteneva né al Ministero né alla polizia e nessuno dei due poteva
farci arrendere; appartiene alle persone della rivolta che decidono
cosa fare seguendo solo i criteri del movimento e non accettano ricatti
o ultimatum da assassini. In questo modo l’occupazione del Politecnico
siè prolungata di un giorno e ha chiamato alla manifestazione in
solidarietà con gli arrestati che ha avuto luogo nel centro di Atene.
Nessun progetto repressivo o attacco ideologico riesce o riuscirà a
riscattare un ritorno alla normalità e ad imporre una pacificazione
sociale e di classe.
Niente è più come prima! La vittoria sulla paura, sull’isolamento e le
divisioni sociali dominanti, ha permesso a migliaia di ragazzi, insieme
con donne e uomini di qualsiasi età, rifugiati e immigrati, lavoratori
e disoccupati di stare insieme per le strade e combattendo i tiranni
della nostra vita, dignità e libertà, dietro alle barricate. E questa è
una realtà che illumina con le sue fiamme il futuro della rivolta,
entrambe l’intensità e la profondità, fino all’assoluta sovversione dei
padroni del mondo. Perché abbiamo gridato in ogni modo che questi
giorni appartengono ad Alexis, a Michalis Kaltezas, a Carlo Giuliani, a
Christoforos Marinos, a Michalis Prekas, a Maria Koulouri e a tutti i
compagni uccisi dagli assassini uniformati di Stato; non sono però
giorni che appartengono alla morte, ma alla VITA! Alla vita che
fiorisce nella rivolta, nelle barricate, nella rivolta che continua.

Terminando l’occupazione del Politecnico dopo 18 giorni, mandiamo la
nostra più calda solidarietà a tutte le persone che sono state parte
della rivolta in diversi modi, non solo in Grecia ma anche in molti
paesi d’Europa, del Sud e Nord America, Asia e Australia – Nuova
Zelanda. A tutti coloro che abbiamo incontrato e con i quali
continueremo a stare insieme, lottando per la liberazione dei
prigionieri di questa rivolta, ma anche perché continui fino alla
liberazione sociale globale. Per un mondo senza padroni e schiavi,
senza polizia e armi, senza confini e prigioni.

MORTE ALLO STATO – LUNGA VITA ALL’ANARCHIA!

LA LOTTA CONTINUA

Facciamo appello per un’assemblea aperta che avrà luogo al
Politecnico Sabato 27 Dicembre alle 16.00, per l’organizzazione della
solidarietà agli arrestati, che è stata chiamata dai compagni
dell’assemblea del GSEE occupato.

Il Politecnico Occupato 12.24.2008

Traduzione di un lettera, pubblicata mercoledì su indymedia-grecia, in cui i soldati di diverse caserme dichiarano di rifiutarsi di mettersi al servizio della repressione.

fonte: http://indy.gr/newswire/epistol-apo-ta-stratopeda-poy-arneitai-ton-katastaltiko-rolo-toy-stratoy

http://tapesgoneloose.blogspot.com/

Traduzione di un lettera, pubblicata mercoledì su
indymedia-grecia, in cui i soldati di diverse caserme dichiarano di
rifiutarsi di mettersi al servizio della repressione.

Centinaia di soldati dei 42 campi dell’esercito dichiarano:

CI RIFIUTIAMO DI DIVENTARE UNA FORZA DI TERRORE E DI REPRESSIONE CONTRO LE MOBILITAZIONI;
APPOGGIAMO LA LOTTA DEGLI STUDENTI DI SCUOLA/UNIVERSITA’ E DEI LAVORATORI.

Siamo dei soldati da ogni parte della Grecia. Soldati ai quali, a
Hania, è stato ordinato poco tempo fa di opporsi a studenti universitari, lavoratori e
combattenti del movimento movimento antimilitarista portando le nostre armi.
[Soldati] che portano il peso delle riforme e della "preparazione"
dell’esercito greco. [Soldati che] vivono tutti i giorni attraverso
l’oppressione ideologica del militarismo, del nazionalismo dello
sfruttamento non retribuito e della sottomissione ai "superiori".

Nei campi dell’esercito, sentiamo di un altro "incidente isolato":
la morte, provocata dall’arma di un poliziotto, di un quindicenne di
nome Alexis.
Sentiamo di lui negli slogan portati sopra le mura esterne del campo
come un tuono lontano. Non sono stati chiamati incidenti anche la morte
di tre nostri colleghi in agosto?
Non è stata pure chiamata un incidente isolato la morte di ciascuno dei 42 soldati che
sono morti negli ultimi tre anni e mezzo?

Sentiamo che Atene, Thessalonica, e un sempre crescente numero di
città in Grecia sono diventate campi di agitazione sociale, campi dove
viene messo in atto fino in fondo il risentimento di migliaia di
giovani, di lavoratori e di disoccupati.

Vestiti con uniformi dell’esercito ed "abbigliamento da lavoro", facendo la guardia al
campo o correndo per commissioni, facendo i servitori dei "superiori", ci
troviamo ancora qui. Abbiamo vissuto, come studenti universitari, come
lavoratori e come disperatamente disoccupati, i loro "porta piante"
[ndt. molto diffusi nelle strade greche, indicano un episodio in cui
alcuni poliziotti, ripresi da un video mentre pestavano uno studente
cipriota, sostennero che si era fatto male contro uno di questi vasi –
video su http://www.youtube.com/watch?v=DlrcoagUggs&feature=related
], i "ritorni di fiamma accidentali", i "proiettili deviati", la
disperazione della precarietà, dello
sfruttamento, dei licenziamenti e dei procedimenti giudiziari.

Ascoltiamo i mormorii e le insinuazioni degli ufficiali dell’esercito, ascoltiamo le
minacce del governo, rese pubbliche, sull’imposizione dello "stato
d’allarme". Sappiamo molto bene cosa ciò significhi. Viviamo attraverso
l’intensificazione [del lavoro], aumentate mansioni [dell’esercito],
condizioni estreme con un dito sul grilletto.

Ieri ci è stato ordinato di stare attenti e di "tenere gli occhi
aperti". Ci chiediamo: A CHI CI AVETE ORDINATO DI STARE ATTENTI?

Oggi ci è stato ordinato di stare pronti ed in
allarme. Ci chiediamo? VERSO CHI DOVREMMO STARE IN ALLARME?

Ci avete ordinato di stare pronti a far osservare lo stato di ALLARME:

•Distribuzione di armi cariche in certe unità dell’Attica [dove si trova
Atene] accompagnata anche dall’ordine di usarle contro i civili se
minacciate. (per esempio, una unità dell’esercito a Menidi, vicino agli
attacchi contro la stazione di polizia di Zephiri)

• Distribuzione di baionette ai soldati ad Evros [lungo la frontiera turca]

• Infondere la paura nei dimostranti spostando i plotoni nell’area periferica dei campi
dell’esercito

• Spostare per protezione i veicoli della polizia nei campi dell’esercito a Nayplio-Tripoli-Korinthos

• Il "confronto" da parte del maggiore I. Konstantaros nel campo di
addestramento per reclute di Thiva riguardo l’identificazione di
soldati con negozianti la cui proprietà è
stata danneggiata

• Distribuzione di proiettili di plastica nel campo di addestramento
per reclute di Corinto e l’ordine di sparare contro i nostri
concittadini se si muovessero "minacciosamente" (nei riguardi di chi???)

• Disporre una unità speciale alla statua del "Milite ignoto" giusto di
fronte ai dimostranti sabato 13 dicembre, come pure mettere in posizione i
soldati del campo di addestramento per reclute di Nayplio contro la
manifestazione dei lavoratori

• Minacciare i cittadini con Unità Operazioni Speciali dalla
Germania e dall’Italia – nel ruolo di un esercito di occupazione –
rivelando così il vero volto anti-lavoratori/autoritario
della U.E. La polizia che spara prendendo a bersaglio le rivolte sociali
presenti e future. E’ per questo che preparano un esercito che assuma i
compiti di una forza di polizia e la società ad accettare il ritorno
all’esercito del totalitarismo riformato.

Ci stanno preparando ad opporci ai nostri amici, ai nostri conoscenti e ai
nostri fratelli e sorelle. Ci stanno preparando ad opporci ai nostri
precedenti e futuri colleghi al lavoro e a scuola. Questa sequenza di
misure dimostra che la leadership
dell’esercito, della polizia e l’approvazione di Hinofotis (ex membro
dell’esercito professionale, attualmente vice ministro degli interni,
responsabile del settore "agitazioni" interne), del QG dell’esercito, dell’intero
governo, delle direttive della U.E., dei negozianti-cittadini-infuriati
e dei gruppi di estrema destra, mirano ad utilizzare le forze armate
come un esercito di occupazione – non ci
chiamate "corpo di pace" quando ci mandate all’estero a fare esattamente le
stesse cose? – nelle città dove siamo cresciuti, nei quartieri e nelle
strade dove abbiamo camminato.

La leadership politica e militare dimentica che siamo parte della
stessa gioventù. Dimenticano che siamo carne della carne di una
gioventù che sta di fronte al deserto del reale all’interno ed
all’esterno dei campi dell’esercito. Di una gioventù che è furibonda,
non sottomessa e, ancora più importante, SENZA PAURA.

SIAMO CIVILI IN UNIFORME.

Non accetteremo di diventare strumenti gratuiti della paura che
alcuni cercano di instillare nella società come uno spaventapasseri. Non
accetteremo di diventare una forza di repressione e di terrore. Non ci
opporremo al popolo con il quale dividiamo quegli stessi timori, bisogni e
desideri/lo stesso futuro comune, gli stessi pericoli e le stesse speranze.

CI RIFIUTIAMO DI SCENDERE IN STRADA PER CONTO DI QUALSIASI STATO D’ALLARME
CONTRO I NOSTRI FRATELLI E SORELLE.

Come gioventù in uniforme, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo che lotta e
urliamo che non diventeremo delle pedine dello stato di polizia e della
repressione di stato. Non ci opporremo mai al nostro popolo. Non
permetteremo nei corpi dell’esercito
l’imposizione di una situazione che ricordi i "giorni del 1967"

Firme dei soldati dai campi:

1. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗ ΠΥΡΟΒΟΛΙΚΟΥ ΘΗΒΑ
2. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΠΕΖΙΚΟΥ ΚΟΡΙΝΘΟΣ
3. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΠΕΖΙΚΟΥ ΤΡΙΠΟΛΗ
4. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗ ΜΗΧΑΝΙΚΟΥ ΝΑΥΠΛΙΟΥ
5. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΠΑΤΡΑΣ
6. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΜΕΣΟΛΟΓΓΙΟΥ
7. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΑΡΤΑΣ
8. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΣΠΑΡΤΗΣ
9. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΚΑΛΑΜΑΤΑΣ
10. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗ ΛΑΜΙΑΣ
11. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΣΠΑΡΤΗΣ
12. ΚΕΝΤΡΟ ΕΚΠΑΙΔΕΥΣΗΣ ΑΥΛΩΝΑΣ
13. 124 ΠΒΕ
14. 115 ΠΤΕΡΥΓΑ ΜΑΧΗΣ ΧΑΝΙΩΝ
15. 112 Π.Μ. ΕΛΕΥΣΙΝΑ
16. 96 ΤΥΠΕΘ
17. 535 ΜΗΧ.Τ.Π. (ΕΒΡΟΣ)
18. ΣΤΡΑΤΟΠΕΔΟ ΛΟΧΑΓΟΥ ΤΖΙΑ (ΝΕΥΡΟΚΟΠΙ)
19. ΣΤΡΑΤΟΠΕΔΟ ΒΟΓΔΟΥ (ΞΑΝΘΗ)
20. 72 ΜΕ (ΧΑΪΔΑΡΙ)
21. Β.Κ. ΑΝΤΙΚΥΡΩΝ
22. ΠΕΔΙΟ ΒΟΛΗΣ ΚΡΗΤΗΣ (ΧΑΝΙΑ)
23. 625 Τ.Π. (ΓΙΑΝΝΕΝΑ)
24. 98 ΑΔΤΕ (ΜΥΤΙΛΗΝΗ)
25. 398 ΕΑΡΜΕΘ (ΜΥΤΙΛΗΝΗ)
26. Β ΕΑΜΕΘ (ΜΥΤΙΛΗΝΗ)
27. 289 Τ.Π. (ΣΑΜΟΘΡΑΚΗ)
28. 862 ΑΒΕΤ
29. 29η ΤΑΞΙΑΡΧΙΑ ΠΕΖΙΚΟΥ (ΚΟΜΟΤΗΝΗ)
30. 518 Τ.Π. (ΝΕΥΡΟΚΟΠΙ)
31. 724 ΜΗΧ.Τ. (ΤΟΞΟΤΕΣ)
32. 558 ΜΗΧ.Τ.Π. (ΚΟΜΟΤΗΝΗ)
33. 569 Τ.Π.
34. ΣΤΡΑΤΟΠΕΔΟ ΠΑΛΑΣΚΑ
35. ΝΑΥΤΙΚΗ ΒΑΣΗ ΒΟΤΑΝΙΚΟΥ
36. ΒΑΣΗ ΤΑΧΕΩΝ ΣΚΑΦΩΝ ΣΚΑΡΑΜΑΓΚΑ
37. ΔΙΕΥΘΥΝΣΗ ΤΕΧΝΙΤΩΝ ΝΑΥΣΤΑΘΜΟΥ ΣΑΛΑΜΙΝΑΣ
38. ΝΑΥΤΙΚΗ ΒΑΣΗ ΚΑΝΕΛΛΟΠΟΥΛΟΣ ΣΚΑΡΑΜΑΓΚΑ
39. ΣΤΡΑΤΙΩΤΙΚΗ ΣΧΟΛΗ ΕΥΕΛΠΙΔΩΝ
40. ΣΤΡΑΤΟΠΕΔΟ ΒΕΡΤΣΩΤΗ
41. 16η ΕΜΑ
42. 95 ΤΕΜΕΘ (ΡΟΔΟΣ)
43. 298 ΛΥΒ (ΡΟΔΟΣ)…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..

Appello per una nuova internazionale

Politici e giornalisti cianciano,
tentando di infangare il nostro movimento con la loro ingannevole
razionalità. Noi ci rivolteremmo per la corruzione del governo, o
perché vorremmo da loro più soldi e più lavoro.

Invece, se attacchiamo le banche è
perché riconosciamo i soldi come una delle cause centrali della
nostra tristezza, se spacchiamo vetrine di negozi non lo facciamo
perché la vita è cara ma perché la mercificazione ci
impedisce di vivere. Se attacchiamo la feccia poliziesca, non è solo
per vendicare i nostri compagni morti, ma perché tra il mondo in cui
viviamo e quello che desideriamo sarà sempre un ostacolo.

Sappiamo essere arrivato per noi il
momento di pensare strategicamente. In questi tempi di imperialismo,
sappiamo che la condizione per una insorgenza vittoriosa è che
questa si espanda, per lo meno, ad un livello europeo. In questi
ultimi anni abbiamo visto e abbiamo imparato: i contro vertici
mondiali, le rivolte degli studenti e degli abitanti delle periferie
in Francia, la lotta contro l’Alta Velocità in Italia, la comune di
Oaxaca, gli scontri di Montreal, l’offensiva in difesa
dell’occupazione anarchica Ungdomshuset a Copenhagen, la rivolta in
occasione della convention americana dei Repubblicani, e la lista
continua. Nati nella catastrofe, siamo i figli di tutte le crisi:
politica, sociale, economica, ecologica. Questo mondo è a un vicolo
cieco, lo sappiamo. C’è da esser folli ad aggrapparsi alle sue
rovine. Bisogna essere in grado di auto-organizzarsi. C’è un ovvietà
nel rifiuto totale di partiti politici e organizzazioni: sono parte
del vecchio mondo. Siamo i figli "guasti" di questa società
e da essa non vogliamo niente. Ecco il peccato capitale che non ci
perdoneranno mai. Dietro le maschere nere, siamo i vostri figli. E ci
stiamo organizzando. Non faremmo tanti sforzi per distruggere la
materialità di questo mondo, le sue banche, i supermercati, le
stazioni di polizia, se non sapessimo che così facendo attentiamo
alla sua essenza profonda, ai suoi ideali, alle sue idee e alla sua
oggettività.

I media avrebbero descritto gli eventi
della settimana passata come espressione di nichilismo. Quello che
non capiscono è che proprio nell’azione di assaltare e disturbare
questa realtà, noi viviamo una più alta forma di comunità, di
condivisione, una più alta forma di organizzazione, gioiosa e
spontanea, che pone le basi per un mondo diverso. Qualcuno potrebbe
dire che proprio nella semplice distruzione la nostra rivolta trovi
il suo limite. Questo potrebbe essere vero se, tolti gli scontri, noi
non avessimo creato l’organizzazione necessaria a un movimento di
lungo termine: depositi riforniti da regolare saccheggio, infermerie
per curare i nostri feriti, i mezzi per produrre i nostri giornali e
la nostra radio. Così come liberiamo il territorio dal dominio dello
Stato e della sua polizia, dobbiamo anche occuparlo, per riempirlo e
trasformarne gli usi, così che possa servire al movimento. Così il
movimento non smette di crescere. In tutta Europa, i governi
vacillano. Sicuramente ciò che li disturba di più non sono gli
scontri riproducibili altrove, ma proprio la possibilità che i
giovani occidentali ritrovino una causa comune e insorgano
all’unisono per dare a questa società il colpo finale.

Questa
chiamata è per tutti quelli all’ascolto: da Berlino a Madrid, da
Londra a Tarnac, tutto diventa possibile. La solidarietà deve
diventare complicità. Il confronto deve espandersi.

Le comuni
devono costituirsi. Così che la situazione non torni più alla
normalità. Così che le idee e le pratiche che ci uniscono diventino
legami effettivi. Così che possiamo rimanere ingovernabili.

Saluti
rivoluzionari a tutti i compagni nel mondo.

A tutti i prigionieri, vi
tireremo fuori!

Comunicato Confedereazione Sindacale greca occupata (17 dicembre 2008)


mercoledi’ 17 dicembre

O SAREMO NOI A SCRIVERE LA STORIA,

O LA STORIA SARÀ SCRITTA SENZA DI NOI

Noi
operai, impiegati, disoccupati, lavoratori precari, greci o immigrati,
che non siamo spettatori e abbiamo partecipato dal primo momento alle
manifestazioni, agli scontri con la polizia, alle occupazioni nel
centro e le periferie d’Atene; noi che molte volte abbiamo dovuto
lasciare il nostro posto di lavoro e i nostri impegni quotidiani per
scendere in piazza fianco a fianco con gli alunni, gli studenti e gli
altri proletari in lotta,
abbiamo deciso di occupare la sede della Confederazione Generale dei Lavoratori della Grecia (CGLG) per:

    Trasformarla in un luogo di libera espressione e d’incontro dei lavoratori;

    Far
    cadere il mito creato dai media, secondo il quale i lavoratori erano e sono assenti dagli scontri e che la rabbia manifestata
    tutti questi giorni riguarda solo 500 “anarchici” e “hooligans” e
    frottole del genere, mentre negli schermi televisivi i lavoratori erano
    presenti come le vittime degli scontri, nello stesso momento in cui i
    licenziamenti di migliaia di lavoratori provocati dalla crisi
    capitalista in Grecia e in tutto il mondo vengono presentati come
    qualcosa di “naturale”.

    Denunciare e portare alla luce il ruolo della burocrazia sindacale nel
    minare la rivolta e non solo questa. La CGLC e tutto l’apparato
    burocratico che la appoggia, da decenni mina le lotte dei lavoratori;
    negoziano la nostra forza-lavoro, prolungando il regime dello
    sfruttamento e della schiavitù salariata. È esemplare il suo
    atteggiamento mercoledì scorso (10 dicembre) quando hanno annullato il
    corteo programmato per quel giorno e si è limitata ad un breve
    concentramento in piazza Sintagma, cercando di isolare i manifestanti dal “virus” della ribellione.

    Perché
    vogliamo aprire per la prima volta ai lavoratori – come conseguenza
    della “frattura” nel sociale che ha prodotto questa rivolta – questa sede costruita con i nostri contributi e dalla quale siamo
    esclusi. Per tutti questi anni abbiamo affidato il nostro destino a
    “salvatori” di ogni genere fino al punto di perdere ogni traccia di
    dignità. In quanto lavoratori dobbiamo assumere le nostre
    responsabilità invece di delegare le nostre speranze a leaderini
    “illuminati” e “abili” rappresentanti. Dobbiamo prendere la parola in
    prima persona, incontrarci tra di noi, parlare e decidere per agire
    contro l’attacco su tutti i fronti che stiamo subendo. Creare forme di
    “resistenza collettiva” dal basso costituisce l’unica soluzione.

    Promuovere
    l’idea dell’autorganizzazione e della solidarietà nei posti di lavoro;
    dei comitati di lotta e delle iniziative collettive dal basso, abolendo
    le burocrazie sindacali.

Per
anni e anni abbiamo dovuto sopportare la miseria, il ruffianesimo e i
soprusi nei posti di lavoro. Ci siamo abituati a contare i nostri i
colleghi morti, la cui morte viene etichettata come “incidenti sul
lavoro”. Ci siamo abituati a disinteressarci degli immigrati – i nostri
fratelli in lotta – che vengono assassinati. Ci siamo
stufati di vivere con l’ansia di come procurarci il salario, i
contributi e una pensione che sta diventando sempre di più un miraggio.

Nello
stesso modo in cui stiamo lottando per non abbandonare la nostra vita
nelle mani dei padroni e dei burocrati, non abbandoneremo mai nelle
mani dello Stato e dell’apparato giudiziario i rivoltosi arrestati.

RILASCIO IMMEDIATO DEGLI ARRESTATI E CHIUSURA DEI PROCEDIMENTI PENALI CONTRO DI LORO.

AUTORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI

SCIOPERO GENERALE

Assemblea Operaia nella Sede “Liberata” della CGLG

Assemblea Generale di Operai in Rivolta

L’ (auto)distruzione, è la creazione

La sera del 6/12 non si potrà dimenticare tanto facilmente.

E questo non
perchè l’assassinio di Alexis è un fatto fuori dal comune, incredibile.

La violenza dello stato può ben provare ad organizzarsi in versioni
dominatrici di volta in volta più produttive, ma alla fine essa dovrà
costantemente tornare sui propri passi, verso una forma di violenza
dispendiosa, conservando nella sua struttura un (extra) stato che non è
in grado d’imporre l’ordine secondo i nuovi dettami della disciplina
modernizzata, fondata sulla sorveglianza e sul controllo dei corpi. In
alcuni casi esso opta per l’eliminazione dei corpi che disobbediscono,
pagando poi il prezzo politico che consegue da questa scelta.

 

Ogni volta che uno sbirro grida: “Ehi, tu!”, il soggetto al quale
s’indirizza quest’ordine e che gira il proprio corpo verso la direzione
del potere, verso il richiamo dello sbirro, è per definizione
innocente; se esso però risponde alla voce che lo chiama esso produce
potere

Il soggetto che non è stato reso abbastanza docile e
disobbedisce, costituisce un caso dove il potere perde il suo
significato e diviene qualche cosa d’altro, una violazione che si deve
regolare (uno sgarro), anche se questo momento di disobbedienza si
svolge a bassa voce, anche se questa persona non ha lanciato una
bottiglia in fiamme verso la macchina degli sbirri ma una bottiglia di
plastica.

Quando l’orgoglio maschile dello sbirro-fascista viene offeso, esso si
può sentire anche in diritto di uccidere per proteggere – questa la sua
pretesa e la sua giustificazione – i suoi figli e la propria famiglia. In
altre parole, l’ordine morale e la dominazione maschile (la forma più
caratteristica di violenza simbolica e materiale instaurata dal regime
sessuale) hanno reso l’assassinio di Alexis possibile, ne sono stati la
molla, essi hanno prodotto la loro ‘verità’ e voilà, esso ha avuto luogo.
Con l’assassinio, arrivati al limite tragico d’una morte che dà un senso
a vite dalla flebile esistenza, ha avuto anche luogo la rivolta, questo
incredibile, imprevisto rovesciamento dei ritmi sociali, questa rottura
del tempo e dello spazio abituali, che destruttura le strutture
esistenti, che rende meno definito il confine tra ciò che esiste già e
quello che non c’è ancora.

Un momento di gioia e di gioco, di paura, di passione e di rabbia, di
confusione e di coscienza, dinamico e carico di promesse. Un momento
che, tuttavia, dovrà scegliere se aver timore di se stesso, e quindi
tenersi aggrappato a quegli automatismi che lo hanno creato, oppure
ripudiare senza posa sé stesso per arrivare a trasformarsi
continuamente, per non correre il rischio di approdare, alla fine, nel
determinismo delle rivolte soffocate nella normalità, delle rivolte che
si sono difese, e che alla fine sono diventate esse stesse un altro tipo
di potere.

 

Ma la rivolta come è potuta diventare possibile? Quale diritto gli
insorti si sono rivendicati, proprio in questo momento, in questo punto,
per questo corpo assassinato? Come è stato socializzato questo simbolo?
Alexis era ‘il nostro Alexis’, non era qualcun’altro, non era uno
straniero, non era un rifugiato. Degli studenti di 15 anni si saranno
identificati con lui, delle madri avranno avuto paura, piangendo questo
corpo, di piangere il proprio figlio, le voci di regime lo vorrebbero
santificare come un eroe nazionale.

Il corpo del ragazzo aveva un
significato, la sua vita doveva ancora essere vissuta, l’interruzione di
questa vita è stato un attacco contro la sfera sociale ed è per questo
che il lutto per Alexis è possibile, anzi imperativo.
Quel proiettile ha perforato la comunità nella quale le rivoltose e i
rivoltosi hanno smesso di identificarsi, come non ci si identificava più
Alexis, ma molti tra noi hanno il privilegio di farne parte dato che gli
altri ci riconoscono come tali.

 

La storia di Alexis sarà riscritta
partendo dalla sua fine: era un bravo ragazzo, hanno detto. La rivolta,
che non si poteva prevedere, è stata resa possibile dalle spaccature che si
sono create all’interno di una società che decide quali corpi hanno
un’importanza in seno alla rete sociale di relazioni di potere.

La
rivolta, questo inno alla non-normalità, è un prodotto della normalità,
essa è la vendetta per i ‘nostri propri’ corpi che sono stati soppressi,
per il nostro proprio corpo sociale. Questa pallottola non ha colpito
solo Alexis, ma la società intera. È stata una ferita per ogni borghese
democratico che si augura che lo Stato e le sue istituzioni perseguano
la sicurezza dei cittadini, la propria sicurezza. È stata una
dichiarazione di guerra da parte dello Stato nei confronti della
società. Il contratto è stato rotto, non ci sono più le basi per il
consenso.

L’atto politico e morale della reistenza è divenuto possibile,
comprensibile, giusto, visibile dal momento che essa è competenza di
criteri e di termini della classe simbolica dominante che trattiene il
tessuto sociale.

Questo punto di partenza non annulla il fatto che la rivolta sia nel suo
pieno diritto d’essere. D’altronde il linguaggio del il potere, che
attribuisce un nome, una forma e un senso a tutte le cose, stabilisce e
delimita anche i campi dei significati da dove si sono attinte le
categorie sociali al fine di regolamentare le relazioni sociali
gerarchizzate. Questo potere, scegliendo bene le parole, ha ostracizzato
alcune categorie di quella comunità, le ‘persone travisate’.

Esso ha
cercato così di relegarli in un margine per mostrare fin dove fosse il
limite concesso della disobbedienza. Resistete, sembrava voler dire, ma
non in questo modo, perchè così è pericoloso, noi vi abbiamo avvisati.
Quello che la legittimazione sociale che si è riscontrata all’inizio di
questo percorso ci dice chiaramente, a nostro parere, è che sia che ci
si trovi dentro il potere, sia che si tratti di creazioni proprie, si è
comunque dentro di lui e contro di lui, si è quello che si fa per
cambiare l’esistente, perchè questa congiuntura storica può essere
plasmata dai contenuti che noi scegliamo di metterci e non dai
significati che avrebbero potuto investirla e dei quali essa saprebbe
facilmente liberarsi in una notte.

Ed essa non può attraversare intatta il limite tra la sottomissione e
l’azione autonoma, perchè se la rivolta deve mobilitare la sua
mascolinità per lottare contro gli sbirri, nello stesso tempo la deve
contestare. Perchè è esattamente il potere con il quale lotta contro gli
sbirri. E questa ambivalenza di sentimenti al cuore della nostra
soggettività, quasta dicotomia o ci farà vacillare, compromettendoci,
oppure saremo noi a farla vacillare.

Nella scelta sta la nostra statura
morale che si svolge al margine del rumore della rivolta, con noi e
attorno a noi, durante le serate tranquille in cui ci si domanda: “cosa
sta accadendo adesso?”, “Cos’è che non ha funzionato al punto che adesso
si sente solo silenzio?”

 

Niente esiste senza il senso che gli si attribuisce. Le strategie di
resistenza possono diventare delle strategie di potere, il caos può
ristrutturare le relazioni di potere, se mentre si lotta contro il mondo
non si lotta anche con la stessa convinzione contro le nostre
personalità, che a questo mondo non sono estranee perchè in esso si sono
formate, in seno alla rete di legami morali e politici dove ha luogo il
nostro essere complici, se si costruisce un macho che diventa folle e
ingarbugliato dalle ‘emozioni’, se ci si fossilizza in posizioni che
rischiano di diventare una nuova forma di potere

 

Ragazze in rivolta

Up against the wall motherfuckers! Siamo venuti per cio che e’ nostro…

Up against the wall motherfuckers! Siamo venuti per cio che e' nostro...

Lunedi 15 Dicembre 2008. In questi giorni di odio, lo Spettacolo – come
relazione di potere, come relazione che forgia la mente di oggetti e di
corpi – e' messo a confronto con un contro-potere diffuso che
deterritorializza le impressioni, permettenendole di sfuggire alla
tirannia dell'immagine e di trovare la strada nel reame dei sensi. I
sensi sono sempre carichi di una tensione antagonista (sono sempre volti
contro qualcosa) ma al momento attuale si stanno polarizzando su
posizioni sempre piu' intelligenti e radicali.

Contro la caricatura supposta pacifica dei media borghesi (“la violenza
non e' accettabile mai, dovunque”), possiamo soltanto ridere
sguaiatamente:
la loro legge, la legge degli spiriti gentili e del consenso, del
dialogo e dell'armonia non e' nient altro che un ben congegnato piacere
bestiale: un massacro promesso. Il regime democratico nella sua facciata
pacifica non ammazza un Alex tutti i giorni, per la precisione perche'
ne uccide a migliaia di Ahmets,Fatimas,JorJes,Jin Tiaos e Benajirs:
perche' assassina sistematicamente, strutturalmente e senza rimorsi
l'insieme del Terzo Mondo, il proletariato globale.
E' in questa maniera, attraverso questa quiete carneficina quotidiana,
che e' nata l'idea di liberta':
liberta' non come un bene panico, non come un diritto naturale per
tutti, ma come il grido di guerra dei dannati, come premessa di guerra
civile.

La storia dell'ordine legale e della classe borghese ci strizza il
cervello con un idea di un progresso dell'umanita' graduale e stabile in
cui la violenza rimane l'orfana eccezione, proveniente dall'ambiente
degradato del sottosviluppo: economico, emozionale e culturale.
Nonostante cio' tutti noi, schiacchiati tra i banchi di scuola, dietro
uffici, nelle fabbriche, sappiamo troppo bene che la storia non e' altro
che una successione di atti bestiali travisati in un morboso sistema di
regole. I cardinali della normalita' piangono la violazione della legge
del proiettile del porco Korkoneas (il poliziotto assassino). Ma chi non
sa che la forza della legge e' semplicemente la forza del potere?
Che e' la legge stessa a chiedere che violenza sia esercitata sopra
altra violenza? La legge e' il vuoto, da una sorte ad una piu' triste
sorte; non possiede significato alcuno, ne' si prefigge nulla al di
fuori della codifica del potere dell'autorita'.

Allo stesso momento, la dialettica della sinistra prova a codificare il
conflitto, la battaglia e la guerra con la logica della sintesi degli
opposti. In questa maniera prova a costruire un ordine; una condizione
pacificata in cui tutto va al proprio posto. Tuttavia, il destino del
conflitto non e' sintesi – come il destino della guerra non e' la pace –
L'insurrezione sociale comprende la concentrazione e l'esplosione   di
migliaia di negazioni, ma non contiene neppure in una singola cellula,
in nessuno dei suoi momenti la propria negazione, la propria fine.
La dolcezza del loro compromesso gocciola sangue.
La fine. Questa arriva, con il suo carico di pesantezza, desolante,come
una salda sicurezza per le istituzioni della normalizzazione sociale,
per la sinistra che promette il diritto di voto a 16 anni, il disarmo
ma, comunque, mantenimento delle forze di polizia, lo stato
assistenziale ecc. Quelli, in altre parole, che cercano di capitalizzare
conquiste politiche, sulla pellaccia degli altri.

L'anti violenza sociale non puo' essere ritenuta responsabile per cio'
che non assume:
di essere distruttiva da capo a fine. Se le lotte dei tempi moderni
hanno qualcosa da insegnarci, non e' la loro triste adesione al soggetto
(classe, partito, gruppo) ma piuttosto il processo sistematicamente
anti-dialettico: l'atto della distruzione non necessariamente porta con
se la dimensione della creazione. In altre parole,
la distruzione del vecchio mondo e la creazione di uno nuovo sono due
processi distinti, ma continui.

La questione e' allora quali metodi di attacco all'esistente possono
essere sviluppati in momenti e punti differenti dell'insurrezione. La
scelta dei metodi non puo' essere conservativa, ma volta al
miglioramento in termini qualitativi. Gli attacchi alle stazioni di
polizia, gli scontri e i blocchi stradali, le barricate e le battaglie
di strada ora costituiscono un fenomeno quotidiano socializzato nelle
metropoli e oltre. Hanno contribuito a una deregolamentazione parziale
del cerchio di produzione e consumo.
Ma ancora, c'e' alla base un'inquadramento parziale del nemico; diretto
e ovvio per tutti, tuttavia il pensiero rimane incatenato all'unica
dimensione di cui si vive lo scontro contro le relazioni sociali del
Dominio.

Comunque, il processo di produzione e circolazione dei beni, in altre
parole, la relazione-capitale, e' soltanto indirettamente colpita dalla
mobilitazione. Uno spettro si aggira per le citta' in fiamme: lo
sciopero generale, selvaggio, senza fine.

La crisi globale del capitale ha inibito ai padroni  la loro risposta
piu' dinamica,  estorta dall'insurrezione: “Vi offriamo tutto, per
sempre, mentre quello che lorsignori possono offrire e' un presente
incerto”. Con la valanga di fallimenti in cascata di una ditta dopo
l'altra, il capitalismo e lo stato non sono piu' nella posizione di
offrire qualcosa di diverso da giorni peggiori all'orizzonte, di dover
tirare la cinghia, la sospensione delle pensioni, tagli al sistema
assistenziale, eliminazione dell'educazione libera. Al contrario, in 7
giorni gli insorgenti hanno provato nella pratica quello che possono
fare: trasformare la citta' in un campo di battaglia, creare enclavi di
comuni attraverso il tessuto sociale, abbandonare l'individualismo e la
sicurezza patetica, cercando la ricomposizione di forze collettive e la
distruzione totale di questo sistema di morte. 

Finalmente di fronte a questa congiuntura storica di crisi, rabbia e
smantellamento delle istituzioni, l'unica cosa che possa convertire la
deregolamentazione sistematica in una rivoluzione sociale e' il rifiuto
totale del lavoro.
Quando la lotta di strada avverra' in quartieri resi bui dallo sciopero
della compagnia elettrica; quando si lottera' in mezzo a tonnellate di
spazzatura, quando i tram bloccheranno le strade, la polizia, quando
l'insegnante in sciopero accendera' il cocktail molotov ad un suo alunno
in rivolta, allora finalmente potremo dire:
 
Ruffiani, la vostra societa'  ha i giorni contati; abbiamo messo sulla
bilancia le sue gioie e le sue giustizie e le abbiamo trovate troppo
scarse”. Questa, oggi, non e' piu' semplice fantasia ma una possibilita'
concreta nelle mani di tutti: l'abilita' ad agire concretamente,
l'abilita' di assaltare il cielo.

Se l'estensione del conflitto nella sfera della produzione-circolazione,
con sabotaggi e scioperi selvaggi sembrasse prematura, potrebbe essere
che non ci stiamo rendendo conto con quale velocita' il potere si
decomponga, con che velocita' pratiche di confronto e forme di
organizzazione di contro-potere si diffondano nel tessuto sociale. Dagli
studenti delle scuole superiori che assaltano stazioni della polizia a
pietrate, a impiegati del comune e abitanti che occupano le sale del
comune. La rivoluzione non avra' preghiere, e pieta' per le condizioni
storiche.

Avviene cogliendo qualsiasi opportunita' insurrezionale in qualsiasi
ambito sociale. Trasformando ogni riluttante gesto di condanna degli
sbirri in un colpo ben assestato alle fondamenta di questo sistema.

Via gli sbirri!

14/12/2008 Iniziativa dall'occupazione della Athens School of
Economics and Business

segue il testo originale, in inglese

Up against the wall motherfuckers! We’ve come for what’s ours…

Monday, December 15, 2008 In these days of rage, spectacle as a
power-relation, as a relation that imprints memory onto objects and
bodies, is faced with a diffuse counter-power which deterritorialises
impressions allowing them to wonder away from the tyranny of the image
and into the field of the senses. Senses are always felt
antagonistically (they are always acted against something) – but under
the current conditions they are driven towards an increasingly acute and
radical polarisation.

Against the supposedly peaceful caricatures of bourgeois media
(“violence is unacceptable always, everywhere”), we can only cachinnate:
their rule, the rule of gentle spirits and consent, of dialogue and
harmony is nothing but a well calculated pleasure in beastliness: a
promised carnage. The democratic regime in its peaceful façade doesn’t
kill an Alex every day, precisely because it kills thousands of Ahmets,
Fatimas, JorJes, Jin Tiaos and Benajirs: because it assassinates
systematically, structurally and without remorse the entirety of the
third world, that is the global proletariat.

It is in this way, through
this calm everyday slaughter, that the idea of freedom is born: freedom
not as a supposedly panhuman good, nor as a natural right for all, but
as the war cry of the damned, as the premise of civil war.

The history of the legal order and the bourgeois class brainwashes us
with an image of gradual and stable progress of humanity within which
violence stands as a sorry exception stemming from the economically,
emotionally and culturally underdeveloped. Yet all of us who have been
crushed between school desks, behind offices, in factories, know only
too well that history is nothing but a succession of bestial acts
installed upon a morbid system of rules. The cardinals of normality weep
for the law that was violated from the bullet of the pig Korkoneas (the
killer cop). But who doesn’t know that the force of the law is merely
the force of the powerful? That it is law itself that allows for
violence to be exercised on violence? The law is void from end to bitter
end; it contains no meaning, no target other than the coded power of
imposition.

At the same time, the dialectic of the left tries to codify conflict,
battle and war, with the logic of the synthesis of opposites. In this
way it constructs an order; a pacified condition within which everything
has its proper little place. Yet, the destiny of conflict is not
synthesis – as the destiny of war is not peace. Social insurrection
comprises the condensation and explosion of thousands of negations, yet
it does not contain even in a single one of its atoms, nor in a single
one of its moments its own negation, its own end. This always comes
heavy and gloomy like a certainty from the institutions of mediation and
normalisation, from the left promising voting rights at 16, disarmament
but preservation of the pigs, a welfare state, etc. Those, in other
words, who wish to capitalise political gains upon the wounds of others.
The sweetness of their compromise drips with blood.
Social anti-violence cannot be held accountable for what it does not

assume: it is destructive from end to end. If the struggles of modernity
have anything to teach us, it is not their sad adhesion upon the subject
(class, party, group) but their systematic anti-dialectical process: the
act of destruction does not necessarily ought to carry a dimension of
creation. In other words, the destruction of the old world and the
creation of a new comprise two discrete but continuous processes.

The
issue then is which methods of destruction of the given can be developed
in different points and moments of the insurrection. Which methods
cannot only preserve the level and the extent of the insurrection, but
contribute to its qualitative upgrading. The attacks on police stations,
the clashes and roadblocks, the barricades and street battles now
comprise an everyday and socialised phenomenon in the metropolis and
beyond. And they have contributed to a partial deregulation of the
circle of production and consumption. And yet, they still comprise in a
partial targeting of the enemy; direct and obvious to all, yet entrapped
in one and only dimension of the attack against dominant social
relations. However, the process of production and circulation of goods
in itself, in other words, the capital-relation, is only indirectly hit
by the mobilisations. A spectre hovers over the city torched: the
indefinite wild general strike.
The global capitalist crisis has denied the bosses their most dynamic,
most extorting response to the insurrection: “We offer you everything,
for ever, while all they can offer is an uncertain present”. With one
firm collapsing after the other, capitalism and its state are no longer
in a position to offer anything other than worse days to come, tightened
financial conditions, sacks, suspension of pensions, welfare cuts, crush
of free education. Contrarily, in just seven days, the insurgents have
proved in practice what they can do: to turn the city into a
battlefield, to create enclaves of communes across the urban fabric, to
abandon individuality and their pathetic security, seeking the
composition of their collective power and the total destruction of this
murderous system.

At this historical conjuncture of crisis, rage and the dismissal of
institutions at which we finally stand, the only thing that can convert
the systemic deregulation into a social revolution is the total
rejection of work. When street fighting will be taking place in streets
dark from the strike of the Electricity Company; when clashes will be
taking place amidst tons of uncollected rubbish, when trolley-buses will
be closing streets, blocking off the cops, when the striking teacher
will be lighting up his revolted pupil’s molotov cocktail, then we will
be finally able to say: “Ruffians, the days of your society are
numbered; we weighted its joys and its justices and we found them all
too short”. This, today, is no longer a mere fantasy but a concrete
ability in everyone’s hand: the ability to act concretely on the
concrete. The ability to charge the skies.

If all of these, namely the extension of the conflict into the sphere of
production-circulation, with sabotages and wild strikes seem premature,
it might just be because we haven’t quite realised how fast does power
decomposes, how fast confrontational practices and counter-power forms
of organising are socially diffused: from high school students pelting
police stations with stones, to municipal employees and neighbours
occupying town halls. The revolution does not take place with prayers
towards and piety for historical conditions. It occurs by seizing
whatever opportunity of insurrection in every aspect of the social; by
transforming every reluctant gesture of condemnation of the cops into a
definite strike to the foundations of this system.

Off the pigs!

14/12/2008 Initiative from the occupation of the Athens School of
Economics and Business

Questi giorni sono anche nostri

testo
distribuito nel picchetto studentesco di fonte ad una caserma da
alcuni albanesi del centro immigrati di Atene il 12 dicembre 2008

Questi giorni
sono anche nostri.

Da quando
hanno assassinato Alexis Grigoropoulos stiamo vivendo in una
condizione di agitazione senza precedenti, un flusso di rabbia che
non sembra finire. Coloro che stanno guidando questa sollevazione,
sembrano essere gli studenti – che con una passione smisurata e
spontanea han capovolto la situazione.

Non si puo’
fermare qualcosa che non ha controllo, qualcosa che e’ organizzato
spontaneamente in termini che non si possono comprendere. Questa e’ la
bellezza di questa sollevazione. Gli studenti liceali stan facendo la
storia e lasciamo pure che sia qualcun altro a classificarli
ideologicamente. Le strade, la passione, gli appartengono.

Dentro
quest’ampia mobilitazione, con le manifestazioni studentesche come
motore, c’e’ una partecipazione di massa della seconda generazione di
immigrati e anche di molti rifugiati. I rifugiati
scendono per strada in piccoli gruppi, con un’organizzazione
limitata, con la spontaneita’ e l’impeto che li caratterizzano. In questo
momento, sono il settore piu’ attivo degli stranieri che vivono in
Grecia. In qualche modo, loro hanno da perdere molto poco.


I figli degli
immigrati si mobilitano in massa e dinamicamente, principalmente con
le azioni dei liceali e degli universitari, ma anche attraverso le
organizzazioni di sinistra ed estrema sinistra. Sono la parte piu’
integra delle comunita’ immigrate: loro, a differenza dei loro
genitori, che sono arrivati a testa bassa, come se stessero
supplicando per un tozzo di pane, sono parte della societa’ greca,
visto che non hanno mai vissuto in nessun altra.
Non implorano
nulla, vogliono solo essere uguali ai loro compagni greci.
Uguali nei
diritti, nelle strade, nei propri sogni.

Per noi,
immigrati organizzati, questo e’ stato un secondo Novembre francese
2005. Non abbiamo piu’ avuto dubbi quando la rabbia delle gente
scorreva per le strade diretta in ogni luogo, nonostante le lotte che
abbiamo portato avanti in tutti questi anni mai abbiamo ottenuto una
risposta cosi’ grande.
E’ tempo che
parlino le strade, il grido soffocato e’ per i 18 anni di violenza,
repressione, sfruttamento e umiliazione.

Questi giorni
sono anche nostri.
Sono
per le centinaia di immigrati che sono stati assassinati lungo le
frontiere, nei commissariati, nei loro luoghi di lavoro. Sono per
quelli assassinati dalla polizia a da "cittadini intimoriti".
Sono per gli ammazzati per aver tentato di passare i confini, quelli
che lavoravano fino a crepare, quelli che non hanno abbassato la
testa e quelli morti per niente. Sono per Gramos Palusi, Luan
Bertelina, Edison Yahai, Tony
Onuoha,
Abdurahim Edriz, Modaser Mohamed Ashtraf e tanti altri che non
abbiamo dimenticato.

Questi
giorni sono per la violenza quotidiana e impunita della polizia, che
rimane senza risposta. Sono per le umiliazioni alle frontiere, nei
centri di detenzione, che continuano senza posa. Sono per le
ingiustizie dei tribunali greci, gli immigrati e i clandestini
ingiustamente detenuti, per la giustizia che ci han negato. Anche
oggi, in questi giorni di rivolta, gli immigrati pagano un prezzo
molto alto – con gli attacchi dell’estrema destra e della polizia,
con deportazioni e detenzioni che le cristiane corti greche
elargiscono con amore a noi, gli infedeli.

Questi
giorni sono per lo sfruttamento continuo in questi 18 anni. Sono per
le lotte non dimenticate: nelle strade di Volos, per i lavori
olimpici, la gente di Amaliada. Sono per il sudore e il sangue dei
nostri padri, per il lavoro in nero, per i turni infiniti. Sono per
le tasse che paghiamo e mai vengono riconosciute.

Sono
per i permessi di soggiorno che inseguiremo per tutta la nostra vita
come biglietti della lotteria.

Questi
giorni sono per il prezzo che dobbiamo pagare semplicemente per
esistere, per respirare.
Son per tutte quelle volte che stringiamo i
denti, per gli insulti che riceviamo, i torti che ci attribuiscono.
Son per tutte le volte che non reagiamo anche se abbiamo tutte le
ragioni del mondo per farlo.
Sono per tutte quelle volte in cui
reagiamo e pero’ rimaniamo soli perche’ la nostra morte e la nostra
rabbia non si incanalano in binari prestabiliti, non genera voti, non
produce notizie o articoli vendibili.

Questi
giorni appartengono a tutti i marginali, gli esclusi, le persone coi
nomi difficili e le storie sconosciute. Appartengono a quelli che
sono morti nel Mar Egeo e nel fiume Evros, agli ammazzati nelle
strade centrali di Atene, e appartiene ai "drogati" di
Exarchia: ai bambini di via Mesollogiu, ai non integrati, agli
incontrollabili.
Grazie
ad Alexis, questi giorni appartengono a tutti.

18
anni di rabbia silenziosa sono troppi.
Scendiamo
in strada, per la solidarieta’ e la dignita’!!
Non
abbiamo dimenticato, non perdoneremo – questi giorni appartengono
anche a te!
Luan,
Tony, Mohamed, Alexis…

immigrati
albanesi